IL NULLA INCRESPATO
PER CITTÀ VISIBILI
E POETI INVISIBILI
di Lucia Bonanni
“Mi esplodono dentro con impeto gioioso/ le fervide voci della memoria./Esse sono così nitide, perfette./Hanno bella voce particolare, intensa”. (Anna Scarpetta)
E “Le voci della memoria” sono voci di appartenenza, seriate nel patrimonio affastellato e coeso nella mente di ciascuno di noi, sono voci di socialità dimenticate e civiltà nascoste, sono stralci di memorie collettive, effervescenze di conflitti interiori, di esplosioni e contrasti terreni.
Sono echi di speranze e disillusi pensieri, sono partenza e ritorno, quello stesso ritorno che adesso mi ri-conduce alle belle “Conversazioni in Sicilia”, intrattenute in “quel luogo di Avola, posto a mezzogiorno, fra uno snodo non interrotto di strade, dove Mazzini e Garibaldi, padri del Risorgimento italiano, si abbracciano nelle vie che li circondano”. (G. Stella)
Mi ri-portano a quel “covo” di sfaccendati che lì si fermano per srotolare canovacci improvvisati e recitare commedie mai scritte, ma ogni volta rinnovate nella loro impalcatura più vera. Randagi sempre più convinti che “perché un’esistenza sia felice, è indispensabile che in essa trovi spazio un pizzico di follia”, giusto come dice Erasmo, quali “maschere nude” la cercano ovunque e da essa si lasciano dominare nei loro comportamenti più schietti. Ecco allora che nel dialogare si riscontra pathos ed energia positiva, quella stessa energia rinvenuta nelle belle e animate conversazioni con il Pr. Nino Muccio e gli altri frequentatori abituali della Libreria, tenendo d’occhio, vista anche la vicinanza con la città di Siracusa, l’orecchio di un Dioniso, editore “piccolo , ma non minore” che “s’affaccia sorridente e sornione” (G. Stella) da dietro lo schermo del suo iMac anche a motteggiare chi gli capita a tiro di scherzo.
“L’uomo ha paura di de-umanizzarsi, di smarrirsi, fa mente locale, si racconta e intende il racconto come bisogno, un racconto da eseguire perché il racconto è un’esecuzione, l’uomo dispone di una partitura che è dentro di sé e neanche sa di averla scritta, ma ce l’ha dentro, diciamo nell’inconscio” scrive N. Muccio a seguito di un costruttivo confronto dialogico circa il bisogno di scrittura quasi, cercando di scongiurare il rischio di poter in qualche modo “far filosofia”, dando fortemente ragione a E. Sanguineti che si definisce esecutore di poesia.
E non per questo “i poeti lavorano di notte/ quando il tempo non urge su di loro/ e termina il linciaggio delle ore” (A. Merini). In quel “luogo di questo pianeta”, così definito da G. Stella, i poeti sono davvero strani, sono tipi originali e direi anche un tantino folli e, sfruttando occasioni per quei “Monumenti come poesie tra città visibili” diventano invisibili e se ne vanno in giro per le vie di Avola e Noto, declamando versi. Essi sono poeti invisibili non per la loro fisicità, ma solo perché “Il mondo non ha mai ascoltato i poeti” (M. Luzi), sono uomini né peggiori né migliori degli altri, come scrive D. Melecanti sono “il palloncino che sfugge dal suo grappolo” e neo versi di N. Kjev “amano ciò che non ha nome”, giocano con le parole e riescono a esprimere ciò che gli altri non vedono e non sentono e per quel briciolo di follia che anima le loro conoscenze, sanno anche presagire e trasformare la realtà in immagini sublimate in simboli e forme retoriche.
In fondo al loro animo hanno “cieli immensi e immenso amore”, sono “il più grande spettacolo dopo il big bang” e considerano le emozioni il sale della vita, come ama definirle Liliana Calabrese, donna dalle mille risorse, sempre attenta a cogliere uno sguardo, un batter di ciglia, una lacrima celata, un suono e un lamento, sempre pronta a mettere cura nelle cose che fa, ad accogliere e a rallegrare con la sua voce e le sue canzoni con cui ha saputo valorizzare ed emozionare la sosta davanti alle abitazioni dei poeti-amici C. Monteleone e A. Caldarella.
Una delle tante cose che ammiro in Liliana è il tipo di abbigliamento che indossa, abbigliamento mai finalizzato ad un iter mondano bensì alla intima essenza dell’evento che si va a celebrare, segno, questo, di grande sensibilità e umanità. E così nel cuore della notte i poeti invisibili si ritrovano per strade trasparenti e a sostare dinanzi a monumenti inafferrabili. Marinai ammutinati di un viaggio inusitato, “formatori di mondo” incantati e senza voce se ne stanno di fronte a quelle pietre di luce rosata che il silenzio della sera rende quasi irreali e cerca di sobillare Stendhal affinché la sua stessa sindrome sia ancor più incisiva e coinvolgente anche perché “La poesia è intorno a noi” e si può fare poesia “non scritta, non parlata, detta con gesti e col silenzio”. (B. Marziano)
E poi, come suggerisce ancora il presidente della giuria del Concorso, non è forse la modernità la molla della vita? E non sono forse le innovazioni che spingono in avanti le pulsioni positive dell’animo? “L’Uomo Moderno, io canto” si legge nei versi di W. Whitman e in questo processo l’editore Urso, “anima e promotore di iniziative che hanno sempre come denominatore la cultura e la centralità dell’uomo” (Mary Di Martino) è al contempo pietra miliare e crogiolo di idee, un Vulcano che forgia armi di pace e socialità condivisa. Ciascuno di questi poeti invisibili, diviene allora parafrasi di quel D. Campana notturno e girovago che mentre cammina per le vie di Firenze si mette a declamare i propri versi, “Me ne vado per le strade/ strette oscure e misteriose: vedo dietro le vetrate affacciarsi gemme e rose./ E la notte mi par bella./E cammina e via cammina./ Già la case son più rade/ trovo l’erba: mi ci stendo a conciarmi come un cane”. Che senso di libertà in queste rime sghembe in un crescendo di musicalità prorompente. E così i poeti invisibili diventano poeti visivi, non hanno un prato per sdraiarsi e conciarsi di verde i vestiti, ma hanno monumenti per riempirsi gli occhi di ineffabile bellezza e distendere l’animo in cerca di quiete e le sinapsi in cerca di molecole di glucosio per una corrente continua di scrittura e produzioni letterarie.
“La poesia è una musica da raccontare e la ragione che rende consapevoli va per questo tenuta all’oscuro di tutto”, scrive ancora N. Muccio ed a questo mi sento di aggiungere che “la poesia è un modo di pensarsi” è effimera, è un momento fissato in immagini passeggere, è un attimo fuggente, un lampo che guizza e un tuono che brontola da lontano e fa parte di quel nulla increspato che tanto isola e tanto rassicura.
Ma che cosa è il nulla?
Che cosa è il vuoto?
Sono forse il niente e il tutto?
La luce e le tenebre, l’alto e il basso, il dentro e il fuori?
Sono e non sono tutto questo, dipende dalle varie situazioni di quel “continuo e incessante accomodamento in un vagabondare” definito e spiegato da Sonja Alia in uno dei suoi tanti e puntuali commenti; un vagabondare legato non soltanto allo spostamento nello spazio, ma, in primis, al dilemma di un’anima vagabonda e in continuo divenire, movimento di intuizioni che vengono a galla dopo che il cuore ha elaborato i dati sensoriali e gettato via le scorie del vivere e accolto quel barlume di follia che rende l’agire maggiormente snello e accettabile. E allora “la metafisica insorge e decide di annullare il nulla, ma la poesia è inarrestabile, perché sgorga come l’acqua da una polla”. (N. Muccio)
Carlo Bo amava ripetere che “Il bisogno di leggere è prima di tutto il bisogno di stare con se stessi” ed altresì lo è il bisogno di scrittura che altro non è che “un dialogare con se stessi, un conoscersi sempre meglio” (B. Marziano). Spesso può trasformarsi e diventare bisogno compulsivo che induce a scrivere anche su mezzi di fortuna quali fazzoletti di carta o la busta delle posate per “raccontare il mondo che si è formato nella testa”.
Talvolta mi sono trovata a dover sbrogliare le matasse ingarbugliate del vivere e sempre mi sono affidata alla scrittura per comprendere meglio il mio stato d’animo e i miei pensieri e restare aderente alla realtà reale e non lasciarmi travolgere dagli eventi. I poeti invisibili di Avola e Noto hanno raccontato il loro mondo, le loro vite, le loro esperienze, i loro dolori e le loro gioie, facendo in modo che “Ogni (loro) azione ( diventasse) meritevole di ricordo” (G. Bufalino). Ci sono riusciti in pieno, immersi in quel nulla increspato hanno esternato il loro sentire ed il loro modo di essere e si sono ritrovati partecipi della fisionomia di ciascuno. E chissà per quale strana concatenazione di idee mi sono ritrovata ad immaginare la scalinata della cattedrale di Noto come un’immensa aula scolastica mentre il vento mi sussurrava che “Noi non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino, noi scriviamo e leggiamo poesie perché apparteniamo alla razza umana e la razza umana è piena di passione”. (dal film “L’attimo fuggente”).
“La vita immensa nella sua passione”, passione declamata in quel canto del sé di whitmaniana memoria, un canto verso “la semplice persona/ la parola Democratico, la parola In-Massa” concetti ampiamente trattati anche da Benito Marziano nel suo discorso introduttivo alla serata di premiazione del Concorso “Libri di-versi”.
E mentre J. R. Jimenz scrive che “il paesaggio muove luci melanconiche” e C. Rebora si affida al “piacere/ dell’ebbra fantasia” noi poeti invisibili, imitando Palazzeschi, abbiamo posto una lente davanti al nostro cuore per farlo vedere alla gente e ci siamo chiesti “Chi sono? Son forse un poeta?” e, lasciandoci guidare dai versi del poeta, siamo giunti alla conclusione che anche noi siamo i saltimbanchi della nostra anima.
Anche in questi eventi “la Sicilia ascolta la sua vita” (L. Sciascia) e lascia liberi i “cavalli di luna e di vulcani” di S. Quasimodo, cavalli che scalpitano nella mente, e si perdono nei meandri del cuore, percorrono praterie sconfinate, si nutrono di sole e si abbeverano alle fontane dell’animo. “Il libro non è solo una raccolta di pensieri e neanche la forma privilegiata del pensare. E’ un essere vivente, la sua presenza fisica si sente, si respira, irradia. Le case sono disabitate quando non c’è il respiro di un libro” (M. Zambiano) e adesso i nostri libri di-versi con quelle copertine tutte diverse sono vivi, respirano, irradiano e abitano le nostre vite e le nostre case e con i loro ritmi allietano i lettori e si eternano anche nei versi a collage, scritti dall’editore Urso come omaggio ai suoi autori-poeti.
Ed è anche per questo che ora io vorrei poter vivere su un’acropoli di vita per scrutare una rinnovata agorà dove non si privilegiano contese, ma sull’ostraco si tracciano soltanto segni di uguaglianza, giustizia e libertà perché come dice Seneca in “De vita beata”, “Vita felice è dunque quella che si accorda con la sua natura, che si può raggiungere soltanto se lo spirito è sano e in perpetuo possesso di questa salute, premuroso a procurarsi gli altri beni che allietano la vita” …anche cercando l’infinito.
--------------- Lucia Bonanni ---------------
Foto di Liliana Calabrese, Corrado Bono, Marcella Alia, Laura (Trippini Trippi) e Marco Urso |